Le risorse umane sono preziose leve di sviluppo in un’azienda. Ma possono anche diventare un rischio. Un dipendente che si dimetta o che veda rescisso il proprio contratto di lavoro può sempre passare alla concorrenza, sottraendo clienti e anche altri professionisti alla sua precedente impresa.
Non è con questo che occorra per forza sottostare a ricatti. Piuttosto meglio cautelarsi in sede di firma del contratto di lavoro, per circoscrivere, nei termini di legge, i margini di manovra di un collaboratore in uscita. Particolarmente idonei allo scopo i cosiddetti patti restrittivi post-risoluzione del rapporto di lavoro. Risultano utilissimi per proteggere il capitale intellettuale e le potenzialità economiche di un gruppo o di una società.
Patti restrittivi, per disciplinare l’attività dell’ex dipendente
Innanzitutto le definizioni. Un patto restrittivo è sostanzialmente una clausola contrattuale che ha lo scopo di disciplinare l’attività del dipendente dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Gli accordi di non concorrenza sono ad esempio patti restrittivi post-rescissione. Una volta sottoscritti, inibiscono sin da subito le facoltà dell’ex addetto di prestare servizio per un competitor e in un ruolo analogo.
Rientra nella medesima specie anche il divieto di sollecitazione dei dipendenti. In virtù di simili patti, all’ex collaboratore è di fatto sin da subito impedito di reclutare suoi ex colleghi a far parte della sua diversa compagine aziendale.
Assolutamente da prevedere anche la clausola che vieta la sollecitazione dei clienti. In base ad essa vengono interdette eventuali relazioni tra l’ex impiegato e i clienti dell’ex datore di lavoro.
La necessità del patto
Va da sé che non tutti i rapporti di lavoro richiedono la tutela di un patto restrittivo. Sta ai dirigenti d’impresa valutare attentamente la natura della prestazione d’opera e in base ad essa determinare l’opportunità o meno della misura. Solo in caso di serie preoccupazioni sulle conseguenze prodotte da dimissioni o licenziamento del dipendente, è consigliabile ricorrervi.
Patti restrittivi, a protezione dei legittimi interessi commerciali
I patti restrittivi sono possono mai trasformarsi in un ostacolo alla libertà di commercio. Un’azienda può certo invocarli quando si trovi a dover salvaguardare un proprio interesse commerciale. Ma il manager è comunque tenuto a dimostrare l’effettiva possibilità di rischio per la sua impresa.
Rientrano nella sfera dei legittimi interessi commerciali tutti i fattori che concorrono alla salute di un’impresa: le relazioni con clienti e fornitori, l’avviamento commerciale, le informazioni riservate o i segreti commerciali e un team di lavoro stabile e affiatato.
L’elenco non è certo casuale, anzi frutto di condivisibili considerazioni. I datori di lavoro investono tempo e denaro per sviluppare e mantenere le proprie risorse e leve di crescita. Sarebbe quindi ingiusto – una vera concorrenza sleale – consentire agli ex dipendenti di sfruttarle. Resta il fatto che gli asset aziendali non possono essere assimilati tour court con l’esperienza maturata negli anni dall’ormai ex collaboratore e con le conoscenze personali che nel frattempo ha saputo coltivarsi. Le competenze e le skill restano come eredità intrinseca di chi se le è create e deve quindi essere nelle condizioni di sfruttarle.
Prevenzione della concorrenza
Il veto di concorrenza non è comunque un provvedimento che possa essere rivendicato a difesa di un interesse legittimo. Per motivi di ordine pubblico la Corte non consentirà mai a un datore di lavoro di invocare i patti restrittivi per inceppare i meccanismi di una sana e vitale competizione sul mercato.
La ragionevolezza della clausola restrittiva
La cautela è d’obbligo anche quando il datore di lavoro dimostri l’esistenza di un legittimo interesse commerciale da tutelare. La Corte infatti è tenuta ad autorizzare solo le restrizioni ragionevoli e compatibili con le esigenze di salvaguardia e non indiscriminatamente tutte quelle che l’imprenditore intende rivendicare. Il patto restrittivo è applicabile solo quando non è più esteso di quanto è plausibilmente necessario. E ciò dipende dai fatti e dai contesti.
Sono tre i fattori cruciali su cui i tribunali fondano il loro giudizio sulla maggiore o minore sensatezza delle richieste: l’ambito delle attività limitato; la durata dei vincoli; la portata geografica delle restrizioni.
Più in generale, quanto più severo è il patto restrittivo, tanto più difficile sarà per il datore di lavoro giustificarne la portata.
L’ambito delle attività
All’ex collaboratore non si potrà certo impedire di lavorare. Quindi le eventuali attività concorrenziali da inibire devono obbligatoriamente coincidere con quelle su cui il dipendente si è impegnato durante il precedente impiego. Per esempio, a un parrucchiere non si può vietare di operare come tecnico delle unghie, e a un insegnante deve essere consentito di reinventarsi come venditore di libri di testo.
Nel determinare il rilievo dei futuri vincoli, il datore di lavoro deve considerare il carattere del proprio business e la pericolosità della concorrenza nel mercato. Da non trascurare anche l’anzianità di servizio dell’ormai ex addetto e le sue possibilità di accesso a informazioni riservate. Una serie di prerogative che sono spesso proprie delle risorse di livello superiore.
In ogni caso non esistono formule univoche per decidere una restrizione esecutiva. Perché sempre nella stima interviene un complesso di elementi. L’obiettivo della Corte è infatti quello di trovare un equilibrio tra l’interesse concorrente del datore di lavoro a proteggere i propri interessi commerciali e la libertà del dipendente di esercitare un’occupazione alternativa.
Durata della restrizione
Le restrizioni non possono neppure protrarsi all’infinito, compromettendo così irrimediabilmente la carriera dell’ex collaboratore. Le barriere debbono essere circoscritte a un periodo consono, nel determinare il quale l’imprenditore deve valutare la durata dell’interesse commerciale da salvaguardare.
Ad esempio, se il datore di lavoro impone il patto restrittivo per proteggere le relazioni con i clienti, la sua logica estensione deve coincidere con il tempo necessario a un nuovo dipendente per stabilire un rapporto di fiducia con il cliente ed evitare così che l’ex collaboratore possa sottrarlo all’impresa.
Se invece il manager mira a tutelare informazioni confidenziali, il termine utile è quello in cui tali informazioni mantengono un loro rilievo. Tale per cui una loro improvvida diffusione possa arrecare danno all’impresa.
Ambito geografico della restrizione
La durata di una restrizione dovrebbe essere inversamente proporzionale alla sua estensione geografica. Tanto più ristretta l’area, tanto più dilatati i vincoli e viceversa. L’ambito, va da sé, dipende dalla diffusione dell’attività commerciale e dalla forza dell’eventuale concorrenza.
Tornando all’esempio del parrucchiere, potrà risultare ragionevole impedirgli di prestare la sua opera in un raggio di tre chilometri dalla sede del suo precedente negozio. Ma sarà certo più arduo identificare un ambito geografico idoneo nel caso in cui le attività dell’impresa di origine e di quella concorrente insistano su un territorio più vasto e ramificato, magari complicato dalla presenza di più sedi. Le restrizioni internazionali non sono in via assoluta inapplicabili, ma in genere sono più difficili da giustificare.
Separazione dei patti restrittivi. Il test della matita blu
Una volta ritenuto sproporzionato, un patto restrittivo non sarà riscritto dalla Corte. Spetterà ai dirigenti aziendali il compito di riequilibrarlo. Tuttavia i giudici potranno pur sempre consentire la soppressione delle parti contestate, lasciando invece inalterati i punti dei divieti ammessi. Tutto purché, a insindacabile parere della Corte, l’accordo mantenga una sua coerenza. Di qui la definizione data alla procedura: test della matita blu.
Violazione di un patto restrittivo
In caso di violazione di un patto restrittivo, la società ha più strade per rivalersi sull’ex collaboratore inadempiente. A ristoro dei danni subiti, il datore di lavoro può rivendicare un risarcimento che riporti l’impresa nella medesima posizione economica in cui si sarebbe trovata se il contratto fosse stato rispettato.
Tuttavia, non appena si venga a conoscenza della effettiva o potenziale violazione, i manager d’impresa devono poter ricorrere subito alla Corte. E ottenerne un provvedimento d’ingiunzione urgente, atto a scongiurare qualsiasi comportamento contrario all’accordo restrittivo. Spetta comunque sempre ai datori di lavoro l’onere di dimostrare davanti ai giudici che il patto restrittivo deve essere immediatamente applicato. E che gli eventuali indennizzi non sarebbero sufficienti a contenere il danno.
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